Sunday, June 29, 2025

LA PROIBIZIONE DEI CELLULARI - Un'altra circolare del Ministro

 Il 16 giugno scorso il Ministro dell’Istruzione ha inviato una nota ai DS degli Istituti di Secondo grado in cui “si dispone anche per gli studenti del secondo ciclo di istruzione il divieto di utilizzo del telefono cellulare durante lo svolgimento dell’attività didattica e in generale in orario scolastico”. L’anche si riferisce al fatto che analoga “disposizione” era stata impartita in precedenza alle scuole del primo ciclo.

 Va innanzitutto ricordato che la generalità delle scuole c.d. “superiori”, seguendo le linee di indirizzo del Ministero del 2007 [1], avevano già da tempo adottato la politica di limitare l’uso dello smartphon esclusivamente ad attività didattiche e sotto la guida degli insegnanti. Dunque la nuova circolare non interviene su una situazione di uso selvaggio dei dispositivi - come si può essere indotti a credere. Si poteva proseguire sulla quella strada, facendo un bilancio dell’esperienza già maturate, rendendo semmai più cogente la limitazione, specificando meglio il possibile ”uso didattico” anche alla luce delle migliori pratiche. Si è scelta un’altra strada, quella di un divieto assoluto, senza alcun approfondimento dell’aspetto educativo, salvo un riferimento generico alle Indicazioni per l’educazione civica. Un divieto imposto, come si diceva, attraverso una nota del Ministro. Circostanza che pone intanto una “questione preliminare”. 

 La nota infatti ordina (futuro deontico: “le istituzioni scolastiche provvederanno...”) ai consigli di Istituto di adottare una delibera di modifica del proprio regolamento prevedendo anche “specifiche sanzioni” per i contravventori del divieto. All’autonomia scolastica” è rimesso nient’altro che “l’individuazione delle misure organizzative” atte ad assicurarne il rispetto. Ma in base a quale potere e a quale competenza il Ministro può imporre ad una istituzione autonoma di modificare il proprio regolamento su un tema di rilevanza sia organizzativa che didattica? Oltretutto rivolgendosi ad una figura - il dirigente - che non presiede neppure l’organismo elettivo che ha invece la competenza per farlo.

Certamente lo Stato ha il potere di stabilire un principio o un divieto valido per tutte le scuole d’Italia ma credo che lo debba fare con un atto normativo, che avrebbe anche comportato il confronto fra diverse posizioni e con le scuole stesse. Non è quindi una questione solo formale. Ed è ormai evidente la tendenza del Ministero a dare dell’autonomia scolastica una interpretazione - diciamo - alquanto restrittiva. Soprattutto in funzione di interventi diretti su questioni che - probabilmente non a caso - paiono suscitare il consenso immediato fra le famiglie. Si veda la nota sui compiti a casa o la comunicazione, direttamente rivolta ai genitori, sulla organizzazione delle attività estive di quest’anno. 

Nel merito, la nota del 16 giugno richiama due documenti internazionali, uno prodotto dall’OCSE nel 2024 (OCSE ‘24) [2] , l’altro dell’ Organizzazione mondiale della sanità nello stesso anno. Il primo è un “documento di lavoro” che analizza un dato rilevabile dalla serie storiche dei risultati di OCSE-PISA: il sistematico declino dei rendimenti degli studenti in tutte e tre le aree di rilevazione dal 2009 ad oggi, dopo una crescita nel periodo precedente. Questo dato è correlato - secondo OCSE ‘24 - ad un declino della produttività riscontrabile nei Paesi dell’organizzazione, conseguente all’entrata nel mondo del lavoro delle coorti “licenziate” dal sistema scolastico dopo il 2009. L’analisi porta all’individuazione di quattro cause fondamentali: il COVID -19, che ha accentuato notevolmente la curva già discendente senza che il ritorno alla normalità abbia ripristinato, se non in parte, gli esiti precedenti; la qualità degli insegnanti - sulla quale pesano soprattutto il basso livello delle retribuzioni e l’insufficiente prestigio sociale; le (mancate) riforme delle politiche scolastiche di molti paesi ed anche l’uso, fino a poco tempo fa ampiamente non regolamentato, dei dispositivi digitali nelle classi”. Si potrebbe notare, di passaggio, che fra le mancate riforme il rapporto - che pure non smentisce una visione chiaramente “economicista” dell’educazione - indica in particolare: l’ancora scarso investimento sull’educazione della prima infanzia e l’early tracking, ovvero la scelta precoce dell’indirizzo di studi. [3]

E poi, appunto, la questione degli strumenti digitali, che OCSE ‘24 affronta da più punti di vista. Quello dell’influenza negativa sull'ambiente di apprendimento dell’uso non regolato e non strutturato degli smartphoni, poiché essi, rappresentando una fonte di distrazione più immediata, possono “indebolire la concentrazione, ostacolare la comprensione e impedire la memorizzazione”. Quello dell’influenza indiretta sull’apprendimento degli adolescenti che sviluppano una dipendenza da smartphonecon conseguente aumento dei tassi di ansia e disturbi ... che possono contribuire a un rendimento scolastico inferiore”. Ma anche quello di un uso non ben strutturato degli strumenti digitali da parte di insegnanti non adeguatamente preparati. Si osserva. - senza dimenticare potenziali vantaggi come il coinvolgimento degli studenti, la personalizzazione, le nuove competenze digitali per futuri lavori - che “un eccessivo affidamento alla tecnologia può compromettere le capacità di pensiero critico, poiché gli studenti diventano dipendenti da risposte rapide provenienti dai motori di ricerca anziché sviluppare capacità di problem solving. Può anche portare alla perdita di competenze di base come la scrittura a mano e l'aritmetica. Non a caso, OCSE ‘24 inizia la parte che qui interessa con una frase lapidaria: “I dispositivi digitali nelle classi erano, un tempo, considerati rivoluzionari per la professione docente ”.

Il citato rapporto dell’OMS [4] aggiunge una quantificazione statistica che mette in guardia dai rischi connessi all’uso dei social media e dei giochi on line ma non autorizza visioni catastrofiste. Si rileva un aumento leggero della percentuale delle ragazze e ragazzi considerati consumatori problematici , cioè potenzialmente a rischio (dall’7 all’ 11%) dal 2018, considerando anche la spinta impressa dal COVID al consumo digitale. Ma il dato risulta assai variabile fra paese e paese e accanto a aumenti  significativi si notano anche percentuali stabili o addirittura in regresso. Per significare che non c’è un destino già scritto.

OCSE ‘24 segnala infine la tendenza, di molti paesi, a limitare decisamente l’uso dei dispositivi a scuola. Tuttavia, anche qui, il quadro è  variegato e in evoluzione. La maggior parte dei divieti riguarda la primaria e, semmai, il livello successivo fino a 15 anni. La maggior parte degli Stati prevede comunque l’uso “per scopi pedagogici” anche dei cellulari, lasciando la regolamentazione di questo aspetto alle singole scuole - cioè grosso modo quello che era previsto finora in Italia. Alcuni Paesi prevedono strategie di riduzione di “esposizione agli schermi” riferiti anche all’uso di dispositivi in dotazione delle scuole. Praticamente tutti i provvedimenti restrittivi sono stati presi con atti legislativi, dopo dibattiti che hanno coinvolto le componenti scolastiche e/o in seguito a sperimentazioni più circoscritte. [5]

In conclusione, è certamente opportuno regolare e limitare la presenza degli smartphon a scuola. Quando si esegue un compito che richiede impegno intellettuale - e in certa misura anche fisico - come a scuola, è necessario mantenere la concentrazione, procrastinare l’impulso a controllare continuamente le “connessioni social”, distinguere gli usi appropriati e inappropriati degli strumenti digitali (come di tutti gli altri) in un contesto dato: questo è senz’altro un messaggio che la scuola deve dare. Ma per essere efficace è necessario che anche la “società degli adulti”, che la scuola stessa rappresenta agli occhi delle ragazze e ragazzi, si dimostri all’altezza del ruolo educativo che intende legittimamente svolgere. Non solo per il comportamento dei singoli, com’è ovvio, ma soprattutto per l’impostazione pedagogica collettiva. Mi riferisco ad un atteggiamento critico e “responsabile” in generale sull’uso dei dispositivi, che eviti  l’ingenuo entusiasmo tecnologista e si concentri  sulla relazione che si genera invece che sul dispositivo in sé; ad esempio: cellulare degli studenti per natura cattivo contro tablet, pc, Lim della scuola sempre buoni - come traspare dalla circolare del 16 giugno. 

  Mettere al centro la relazione pedagogica significa anche chiarire per quale impegno si chiede di rinunciare alla “connessione”.  In estrema sintesi: se per il solito monologo dell’insegnante, magari “potenziato” digitalmente, o per la partecipazione di tutti alla scoperta e alla ricerca, usando il digitale - magari talvolta gli stessi smartphon - per coinvolgere e “ampliare gli orizzonti”. Altrimenti il rischio è che alla fine il messaggio implicito verso le studentesse e gli studenti in particolare del secondo ciclo, diventi un altro: gli adulti non hanno nulla da insegnare sulla tecnologia, sanno solo proibire per sfiducia verso gli adolescenti e, in definitiva, verso se stessi.  Lo stesso rapporto dell’OMS, sollecitando a sua volta adeguate politiche di regolamentazione, sottolinea il metodo del dialogo con le famiglie e gli stessi studenti fin dalla prima infanzia, con strategie basate sulla capacità di differenziare gli interventi in base all’età, ai bisogni, al genere e anche sulla consapevolezza “della differenza tra l'uso intensivo e l'uso problematico dei social media e dei giochi”. Insomma il metodo di una scuola che unisce l’autorevolezza della limitazione alla capacità di dialogo e di condivisione.

Con la circolare del 16 giugno si è scelta, come si diceva, la strada di un divieto generalizzato, senza troppe preoccupazioni pedagogiche e di condivisione, fin dalla scelta della modalità di intervento. Affrontare problemi complessi con il semplice meccanismo del divieto-controllo-sanzione è una tendenza ormai dilagante nel tempo presente. In Italia e non solo. Che sia efficace, specie in un campo come l’educazione, è tutto da dimostrare.

 

P.S. E’ ormai molto diffusa, nei documenti internazionali e nel dibattito su questi temi, la citazione del libro di Jonathan Haidt La generazione ansiosa. [6] E’ un testo importante, ampiamente documentato e argomentato, anche se non sempre condivisibile. Ha una impostazione rivolta alla regolamentazione severa dei dispositivi. Tuttavia, il nucleo dell’argomentazione di Heidt è che il disastro compito dalle generazioni adulte ai danni degli adolescenti è dovuto, da una parte al lassismo verso gli smartphon, consegnati senza precauzioni a bambine e bambini anche molto piccoli, dall’altra alla iperprotezione degli stessi nel mondo reale, con la sottrazione dell’elemento del rischio, necessario per la crescita anche psicologica - quello che lui chiama il safetism. La convergenza dell’iperprotezione nel reale - inteso come fisicocorporeo - e dell’abbandono nel digitale hanno prodotto una generazione di soggetti fragili ed esposti ai disturbo psicologici. Haidt stesso sostiene che una scuola che mette al bando gli smartphon deve sviluppare con altrettanta forza il gioco, l’attività fisica, il coinvolgimento critico. Anche perché “un grammo di prevenzione vale più di un chilo di cura”.

Ora, è curioso che, mentre nel mondo anglosassone questo aspetto del safetism è stato ben compreso, tanto che negli USA sono sorte associazioni di genitori che si battono per un ritorno, anche a scuola, dei giochi autonomi e ragionevolmente “rischiosi”, [7] in Italia esso è stato quasi ignorato  anche dagli estimatori del libro. E le scuole dell’infanzia e del primo ciclo, spesso incalzate dai genitori, continuano imperterrite a interdire spazi e momenti di gioco, specie all’aperto, in nome di una concezione esasperata e spesso irrazionale della sicurezza.



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 [1] Si tratta della nota del 15 marzo 2007 contenente “linee di indirizzo e indicazioni sull’uso dei ‘telefoni cellulari’ durante le attività didattiche”

[2] From decline to revival: Policies to unlock human capital and productivity - OECD Economic Department Working Documents - 2024

[3] Ocse ‘24 osserva che, anticipando la scelta, “gli studenti con scarsi risultati provenienti  da famiglie svantaggiate vengono spesso indirizzati verso percorsi professionali”; essi “sebbene possano fornire competenze specifiche per un lavoro immediato, rischiano di non fornire agli studenti competenze generali necessarie per l’apprendimento permanente”. Sarebbe interessante avere il commento del MIM, che sta impostando la riforma dell’istruzione tecnico-professionale proprio sull’anticipo della diversificazione degli indirizzi.

[4] A focus on adolescent social media use and gaming in Europe, central Asia and Canada: Health Behaviour in school-aged children report from 2021-2022 survey - WHO European Region - IRIS - 2024

[5] Si vedano in particolare gli esempi della Francia, con la legge del 3 agosto 2018, poi ancora modificata nel 2024 e la modifica della legge sull’istruzione dello Stato di New York approvata dall’Assemblea legislativa statale il 9 maggio 2025, che generalizza un’esperienza condotta per oltre un decennio dalla Città di New York.

[6]  Jonathan Haidt La generazione ansiosa, Mondadori 2024

[7] E’ il caso dell’associazione Let grow che si definisce movimento per l’indipendenza dell’infanzia. Nel sito ufficiale si legge: “Rifiutiamo l'idea che [i bambini] siano costantemente esposti a pericoli fisici, emotivi o psicologici a causa dmalintenzionati, rapimenti, frustrazioni, fallimenti, ladri di bambini, brutti voti, appuntamenti di gioco deludenti e/o pericoli legati a un'uva non biologica ... La nostra società è ossessionata dalla fragilità dei ragazzi ma trattandoli da esseri fragili li facciamo diventare proprio così”.



Wednesday, May 28, 2025

LE NUOVE INDICAZIONI 2 - La discussione prende quota.

           Sembra dunque che la discussione sulle Nuove Indicazioni nazionali per la scuola dell’Infanzia e il Primo ciclo (NIN) stia prendendo quota. Ben oltre i tempi di una consultazione ministeriale affrettata, mentre il Commissione redigente, dopo aver derubricato disinvoltamente i primi pareri negativi a “resistenze residue di gruppetti radicali”, si appresta a pubblicare la versione definitiva, lentamente si sta sviluppando un movimento d’opinione fortemente critico e si susseguono assemblee di insegnanti, incontri pubblici, prese di posizione di operatori della scuola ed esperti. E’ prevedibile che, dopo la pausa estiva, questa mobilitazione riprenderà a settembre, tanto più che lo stesso MIM ha annunciato che le NIN andranno in vigore dal 2026-27, per “dar tempo agli editori di adeguare i libri di testo”.

Sono anche uscite le prime pubblicazioni che raccolgono le ragioni di chi dissente. Cito il quaderno monografico di Articolo 33, la rivista della FLC-CGIL (1), il libretto della Erickson Credere, obbedire, insegnare (2). Quest’ultimo, curato da Dario Ianes raccoglie i commenti critici e le proposte alternative di sedici esperti, ciascuno su un aspetto specifico delle NIN. Mi soffermo solo su alcuni spunti, sui quali penso valga la pena di riflettere.

A mo’ di premessa il libro si apre con un Breve dialogo fra una dirigente e un barista. Quest’ultimo chiede lumi alla DS della scuola vicina su questa “legge nuova” di cui tutti gli insegnanti che frequentano il bar parlano con preoccupazione. Lei gli spiega che è la solita storia: da trent’anni ogni nuovo ministero vuole marcare il territorio, “come i cani che lasciano il segno per far sentire che di lì loro sono passati”, con decreti e provvedimenti vari. Che il realtà sono fuffa, parole vuote, “spostamenti di sfumature”, estranee alla pratica quotidiana della scuola. Come tali anche le NIN finiranno in nulla, “andranno a mare”, e a chi lavora nella scuola ogni giorno toccherà affrontare le difficoltà di sempre. Finché almeno qualcuno non accompagnerà le “parole tracotanti” con cambiamenti concreti, strutturali, che la DS identifica sostanzialmente negli ambiti del reclutamento, valutazione e progressione di carriera dei docenti, della semplificazione amministrativa e della “flessibilità del curricolo e della personalizzazione”. Alla fine, la DS dice che comunque i suoi insegnanti “hanno ragione a discuterle, criticarle, assieme a tante persone coinvolte nella scuola ... possibilmente anche con opinioni basate scientificamente” e poi “corre a scuola” perché ha da fare. In queste brevi battute è espresso bene un sentimento largamente diffuso nella scuola, una sorta di disillusione operosa, basata sulla convinzione che le cose vanno avanti per il lavoro di chi fa scuola ogni giorno e che “dall’alto” c’è comunque da aspettarsi poco di buono, salvo attendere con pazienza che passi e moltiplicare l’impegno personale.

Nel suo contributo, poche pagine oltre, Franco Lorenzoni cita un intervista di Antonio Brusa a Tecnica della scuola (3) sulla parte delle NIN dedicate alla Storia. In quell’intervento, Brusa - che è  presidente della Società italiana di didattica della storia - sostiene che essa non solo teorizza una impostazione apertamente identitaria e occidentalista - vedi l’incipit fin troppo citato: solo l’Occidente conosce la Storia - ma fornisce anche una interpretazione del declino della conoscenza storica attribuendola ai “tanti gruppi minoritari ma corposi che per decenni si sono battuti per il rinnovamento della didattica, anche in chiave laboratoriale”. Quelli che hanno provato a “fare storia” attraverso l’approccio critico, la valorizzazione delle fonti e dei contesti materiali, il confronto fra una pluralità di visioni dello sviluppo storico. Il fatto è - continua Brusa - “che questi gruppi sono rimasti minoritari e che la maggior parte dei docenti pratica il cosiddetto modello tradizionale : lezione - manuale - interrogazione. Quindi, se c’è una crisi è a questi insegnanti che va imputata”. Se questo è vero, la prima cosa che viene da chiedersi è se ciò vale solo per la Storia o anche per le altre materie.

E’ un tema ripreso da Simone Giusti - docente di Letteratura italiana all’Università di Siena - che al termine del suo contributo osserva: “Se fino ad oggi avevamo a disposizioni Indicazioni nazionali (quelle del 2012, n.dr.) in gran parte disattese - anche perché non sono mai state accompagnate da adeguati finanziamenti, né da interventi di formazione e di accompagnamento all’altezza della situazione - ma dotate di prospettiva e aperte ad una pluralità di modelli didattici e di opzioni educative, domani dovremo sottoporci al diktat di una norma ... intenzionata a sbarrare la strada a gran parte della tradizione didattica italiana che fino a questo momento è stata minoritaria e da domani sarà anche oppressa(4). Mi pare un punto essenziale. 

Torniamo un attimo al nostro dialoghetto morale, perché forse qualcosa da precisare c’è. Le NIN non sono fuffa. Benché siano un testo prolisso, inutilmente retorico, poco coordinato e a volte contraddittorio, sono il prodotto di una corrente di pensiero che in questi anni, anche in ambienti intellettuali prestigiosi, ha teso a identificare la causa della crisi della scuola - spesso rappresentata in termini catastrofisti - nella vittoria della pedagogia “progressista” (se non della pedagogia tout court), conseguenza di una più ampia “egemonia culturale” dello stesso segno. A cui invece si ispiravano, raccogliendo largamente le istanze delle scuole più innovative, le Indicazioni del 2012, che infatti ora si vogliono cancellare. Galli della Loggia, l’autore della parte culturalmente più impegnata delle NIN, è stato, come editorialista del Corriere della sera, uno dei più efficaci interpreti di questo pensiero; non a caso con lui ha collaborato Adolfo Scotto di Luzio che in suo recente libro ha dato dignità teorica a chi ha sempre pensato che fra i ragazzi di don Milani e la professoressa avesse ragione lei (5)

Dunque, se è vero quello che dicono Brusa e Giusti, ciò che si propongono le NIN, la loro cifra più profonda, più che un “ritorno al passato” consiste nell’appello ad un passato che non passe che ora si riproporre come futuro. A chi, docenti e dirigenti, ha continuato a fare scuola “come una volta”, si dice oggi che va bene così. Dietro la cortina di “obiettivi” e “traguardi” messi perché ci devono stare, si propone un rassicurante elenco di contenuti - come ai bei tempi dei Programmi ministeriali. In cambio di un po’ meno di autonomia e di libertà di insegnamento si (ri)propone una navigazione tranquilla, confortata dall’indice dei “nuovi” libri di testo. Insieme alla promessa, invero assai illusoria, di un rinnovato prestigio sociale. Si offre persino la copertura culturale del dovere di ricostruire l’identità nazionale.

Le NIN non sono inutili, sono dannose e posso lasciare un segno più duraturo di quello del metaforico cane. Discuterle, criticarle con “opinioni basate scientificamente” dovrebbe servire soprattutto a spiegare al metaforico barista - a tutte le cittadini e le cittadini - che non si tratta di sfumature semantiche - affari fra addetti ai lavori - ma dell’idea di scuola che è poi, in definitiva, l’idea di società - che riguarda tutti. E a spiegare qual è questa idea di scuola a cui teniamo (anche per capire, magari, perché non l’abbiamo davvero realizzata). E poi ancora a indicare quali sono, più precisamente, quei “cambiamenti concreti e strutturali” che anche la metaforica Dirigente chiedeva. Se non altro per non dare più alibi a nessuno.

Non è facile. Prepariamoci per settembre.


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(1)  https://www.articolotrentatre.it. Numero di maggio.

(2)  Dario Ianes (a cura di) Credere, obbedire, insegnare, Erickson, 2025

(3)   https://www.tecnicadellascuola.it/indicazioni-nazionali-lo-storico-antonio-brusa-non-ha-dubbi-sono-ottocentesche-hanno-funzione-identitaria-e-non-cognitiva,. 

(4) Simone Giusti La deriva della tracotanza  in  Credere, obbedire, insegnare, cit., pagg. 95-96

(5) Mi riferisco a Adolfo Scotto di Luzio L’equivoco don Milani, Einaudi, 2023. L’autore, docente dell’Università di Bergamo compare fra gli esperti della sotto-commissione per la Storia, coordinata da Galli della Loggia.

Friday, May 2, 2025

LA SCUOLA DEL FUTURO

   Nei giorni scorsi alcuni siti di notizie della scuola hanno riportato l’esperienza di una scuola americana - che corrisponde ad un istituto secondario di secondo grado - in cui  si studiano le materie per due ore al giorno; gli adulti della scuola non sono insegnanti ma “guide” o “consulenti” che aiutano gli studenti a progettare il proprio percorso personale di studi gestito autonomamente attraverso applicazioni “adattive” di intelligenza artificiale;  il percorso pluriennale (quattro anni, secondo l’ordinamento locale) è organizzato in moduli, con un sistema di crediti per le diverse discipline analogo a quello delle università. Nel tempo restante le studentesse e gli studenti sono impegnati a sviluppare progressivamente un progetto in base ai propri interessi personali, finalizzato a realizzare e presentare un prodotto finale, chiamato masterpiece (capolavoro - vi ricorda qualcosa?).

Per chi fosse interessato la scuola in questione è l’ Alpha Hight School di Austin, Texas, in rete si trovano altre informazioni, descrizioni e valutazioni. [1] (Se qualcuno sta pensando all’iscrizione dei propri figli però è bene sappia subito che, essendo un’istituzione privata, la retta ammonta a 40 mila dollari l’anno).

Di solito, queste esperienze, di cui si danno notizia  i siti o la stampa specializzata e talvolta anche quella “generalista”, sono riportate come curiosità esotiche, alimentano  qualche commento superficiale o, al più, qualche tentativo di imitazione di elementi fuori contesto. Mi chiedo tuttavia se questo atteggiamento - anche quando le scuole “nuove” sono tutt’altro che sono tutt’altro che convincenti - non sia il segno dell’elusione di una questione tutt’altro che superficiale. In un epoca di profonde e rapide trasformazioni che interessato praticamente tutti gli ambiti della comunicazione, del lavoro, delle relazioni interpersonali e della stessa partecipazione pubblica, una delle domande centrali dovrebbe essere: “qual è il futuro della scuola?”. Cioè dell’istituzione storicamente preposta a comunicare il patrimonio del sapere collettivo e ad abilitare le persone a vivere insieme e a lavorare con gli altri. Più precisamente: quale struttura organizzativa e quale impostazione pedagogica possiamo immaginare per un sistema scolastico che rimanga coerente, in un mondo in così rapida trasformazione, con i principi della società democratica e del pensiero critico? 

Non mi pare che di questo si parli molto. Nel nostro Paese sta prendendo forma -  per le scelte del Ministero e per l’orientamento di una parte consistente dell’opinione pubblica - la tendenza a reagire alla sfida dei tempi con un ritorno al passato, ovvero con la riproposizione di una scuola che non funzionava neppure in passato, figuriamoci in futuro. Più debole mi pare la posizione di chi si oppone a questa deriva. Perché in una prospettiva di cambiamento, di riforma in senso progressista se vogliamo dire così, non  basta il lodevole lavoro delle istituzioni e delle scuole che sperimentano nuove soluzioni “a struttura invariata” (oltre che “senza ulteriori oneri”), cioè nell’ambito ristretto dell’autonomia di ogni singola istituzione. Sarebbe necessaria una proposta politica di cambiamento strutturale, che riprenda in mano anche questioni di fatto accantonate. 

Accenno solo a due temi, riferiti entrambi alla scuola secondaria.  Primo. Ha senso, dopo aver portato l’obbligo a sedici anni, mantenere i primi  bienni del “superiore” distinti per indirizzi? Non sarebbe logico almeno rimandare il “bivio” fra canale liceale e canale tecnico-professionale a partire dal terzo anno? Questa riforma renderebbe a sua volta credibile l’estensione dell’obbligo a diciotto anni, anche con l’obiettivo di aumentare significativamente la percentuale di coloro che proseguono gli studi oltre il diploma. Ovvero: di aumentare la frequenza dei percorsi di istruzione terziaria, non necessariamente universitaria, perché gli ITS potrebbero diventare davvero un’alternativa credibile per chi cerca un inserimento più rapido nel mondo del lavoro (e non il pezzo terminale di un canale formativo precoce, rigido e di fatto  “minore”). Secondo. Al di là della retorica “nuovista”, è opinione ormai consolidata che l’Intelligenza artificiale possa aiutare l’individualizzazione dell’insegnamento - che è un grande tema del dibattito pedagogico contemporaneo. Ma forse, proprio se si parte dalla pedagogia e non dalla tecnologia, il discorso andrebbe rovesciato: solo una scuola capace di tenere insieme l’uguaglianza e la crescita collettiva con lo sviluppo originale di ogni persona può accogliere utilmente le potenzialità educative della IA. Ken Robinson  diceva che la scuola, nata dalle due rivoluzioni di fine Settecento, quella francese e quella industriale, è rimasta nella sostanza l’unica grande organizzazione tayloristica del mondo - pensata perché tutti facciano le stesso cose, nello stesso luogo, nello stesso momento e per lo stesso tempo. E allora, quale potrà essere la forma  post-tayloristica dell’educazione? Si può seriamente parlarne senza affrontare il tema delle  materie e attività opzionali per ciascuna studentessa e studente, all’interno di percorsi comuni di studio? Con quali conseguenze per la tradizionale organizzazione delle classi, degli anni scolastici, degli ambienti fisici?

Non sono questioni e idee nuove. Marino Raicich, una grande figura di uomo di scuola purtroppo quasi dimenticato, [2] presentò a suo tempo una proposta di legge per la riforma dell’ordinamento della “scuola superiore”. Era basata sul superamento della struttura gentiliana a “canne d’organo” (Licei, Tecnici, Professionali) e sulle scelte opzionali nel Triennio. Era il 1972. La scuola su misura, che teorizzava il superamento della divisione per classi di età e per anni di studio è un testo di Claparède - per fortuna non altrettanto dimenticato - del 1920 [3]. Riprendere e sviluppare queste idee significa riannodare fili di una storia del riformismo scolastico e riconnettere elementi del sistema che sono visti troppo spesso in modo separato: l’ordinamento, i curricoli, il ruolo e lo status dei e delle docenti, l’innovazione metodologica, l’organizzazione degli spazi e dei tempi e così via.

Potrà forse apparire velleitario e magari “divisivo” pensare ad una riforma così ambiziosa ora che si tratta di contrastare un progetto restauratore. E tuttavia, proprio se si riflette sugli ultimi decenni, non è difficile constatare che, per quanto riguarda la scuola ma anche l’intero ambito dei diritti e dei servizi collettivi, non si può rimanere a lungo fermi: o si si va avanti immaginando e cercando di progettare il futuro e si ritorna indietro, a volte più di quanto si sarebbe  stati disposti a credere. Gianfranco Cerini diceva che le riforme scolastiche dovrebbero essere come le ballate popolari. Voleva dire che non ci servono modelli calati dall’alto - perché “la scuola non ama le gerarchie” - ma credo volesse anche dire che qualcuno deve pur provare a intonare motivi nuovi, a sviluppare temi che sembravano dimenticati e a lanciarne di nuovi. La comunità a cui spetta questo compito non può che essere quella dei soggetti - partiti, associazioni, sindacati, reti locali e singoli - che rimangono ben consapevoli del nesso inscindibile che lega  scuola e democratica.

Dunque, non abbiamo bisogno di modelli e se anche ne avessimo, non potrebbe essere l’ Alpha High school. Troppo evidente - basta leggere i documenti che la pubblicizzano - è il carattere elitario e il clima competitivo che la connota, oltre alla pretesa che l’IA di fatto sostituisca e non supporti il lavoro dei docenti. Allo stesso tempo però, essa è la dimostrazione e l’esempio che pensare il futuro è possibile. E, per chi crede nel cambiamento, necessario.

 

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[1] Si veda innanzitutto il sito ufficiale della scuola, https://alphahigh.school.

[2] Marino Raicich è stato un insegnante e un parlamentare del PCI per tre legislature, dal 1968 al 1979. Il sito della rivista Il Mulino gli ha dedicato un ricordo di Mariangela Caprara, Marino Raicich e la riforma della scuola secondaria, il 7 marzo 2025, centenario della nascita - https://www.rivistailmulino.it/a/marino-raicich-e-la-riforma-della-scuola-secondaria-1La proposta di legge citata porta la data del 18 gennaio 1972, nel corso della V legislatura; lo scioglimento anticipato delle Camere rese necessario ripresentarlnel giugno dello stesso anno. Fra i firmatari vi era anche Giovanni Berlinguer, Gabriele Giannantoni, Giorgio Bini, Giuseppe Chiarante. Il testo, fu poi pubblicato in un volumetto degli Editori Riuniti Una costosa industria dell’inutile, 1973, con prefazione dello stesso Raicich.

[3] Edouard Claparède, La scuola si misura, tr. it. La nuova Italia, Firenze, 1952

Thursday, April 3, 2025

LE NUOVE INDICAZIONI 1 - Appunti di lettura

 Nelle settimane scorse, le nuove Indicazioni nazionali per il primo ciclo e la scuola dell’infanzia sono state finalmente pubblicate (dopo alcuni mesi di gestazione in cui filtravano solo le anticipazioni della prof. Perla, presidente della commissione, e del prof. Galli della Loggia, suo ideologo) e sono ora oggetto delle valutazioni e dei commenti delle diverse componenti del mondo della scuola e della stessa opinione pubblica interessata. Lasciamo da parte il modo in cui è stata organizzata la consultazione formale delle scuole. Rinunciamo anche all’impresa di azzardare in poche righe un giudizio complessivo su un documento che si presenta molto ampio, in diversi punti ridondante, talvolta anche contraddittorio o comunque scollegato fra le diverse parti. Proviamo piuttosto a mettere giù alcuni appunti di lettura che possono forse aiutare ad orientarsi in questo documento, così importante per il segmento più ampio della scuola italiana.

1. Nella Premessa culturale generale, è scritto che la scuola è una comunità educanteluogo di elaborazione di culture educative, in cui si sperimenta l’innovazione. Bene. Quando però si descrive - in una dozzina di righe appena - in cosa si sostanzia oggi il lavoro di innovazione educativa e metodologica della scuola italiana, il quadro è questo: “Le scuole sono spesso dotate i piccole biblioteche ... e sanno sperimentare curricoli flessibili .. Gli studenti lavorano spesso a gruppi ... escono dalle classi per raggiungere ambienti laboratoriali e atelier artistici. Le aule sono spesso organizzate in aree di lavoro .. gli spazi all’aperto diventano aule esterne, orti, piccoli giardini ... Operosità, collegialità, serenità sono i tratti caratterizzanti...: esempi contemporanei della grande tradizione dell’Attivismo pedagogico”. [1]  Ci si aspetta di veder apparire, sulle soglie delle aule - anzi delle classi, tanto è lo stesso - Giuseppina Pizzigoni o Rosa Agazzi (con tutto il dovuto rispetto per queste due grandi, autentiche, innovatrici). Rispetto all'avanzamento effettivo dell'innovazione e della cultura pedagogica nelle nostre scuole, una descrizione da avanguardie degli anni ‘60, forse. In compenso, rispetto alle Indicazioni del 2012 spariscono  i paragrafi specifici dedicati, sia per la scuola dell’infanzia che per il primo ciclo, agli ambienti di apprendimento, che ospitavano un’ampia riflessione - in linea con gli orientamenti pedagogici internazionali - sull’importanza dell’organizzazione dello spazio e del tempo come fattori abilitanti dell’apprendimento, sulla valorizzazione della diversità e sulla conoscenza di sé dell’alunno come criteri ispiratori dell’azione educativa, sul laboratorio come metodo prima che come luogo. In compenso, si è inserito un paragrafo nuovo, sempre nella parte generale, su Insegnante professionista, e anche Maestro. L’incipit: “Troppo spesso si dimentica che un insegnante è magis, di più ed è il volano del desiderio di apprendimento dell’alunno”. Infatti, “l’allievo non sceglie di desiderare a imparare, sceglie il modello che sa stimolarlo in tale direzione”. [2] Senza mettere in dubbio l’importanza del docente, qui pare che si torni ad una visione del maestro come figura centrale e solitaria (a sconto della citata collegialità), prima di tutto modello umano ideale dell’allievo. “Il metodo è il maestro”, viene da esclamare, con Gentile buon anima. Il paragrafo finisce con un po’ di osservazioni sulla perdita di prestigio della famiglia, sull’eterno bisogno dei bambini di sicurezza e di essere amati da genitori e maestri. Per finire con l’appello “i bambini ci guardano”, citazione esplicita del film di Visconti, anno 1944.

2. Parafrasando Mc Luhan, per le nuove Indicazioni si potrebbe dire che “la struttura è il messaggio”. Dopo le Premesse comuni, il testo, almeno per la parte del primo ciclo (la parte sulla scuola dell’infanzia presenta minori differenze rispetto alle precedenti Indicazioni) è organizzato così: per ogni disciplina  vi è una premessa culturale disciplinare divisa in “perchè si studia” quella data materia e “finalità di insegnamento”; seguono,  sia per la Primaria sia per la Secondaria,  le competenze attese  e gli obiettivi specifici. Poi ancora: le conoscenze, gli esempi di moduli interdisciplinari, i suggerimenti metodologici e quelli delle ibridazioni tecnologiche. Nello schema riassuntivo iniziale queste tre ultime parti vengono riassunte - non si capisce bene perché - col termine  traiettorie per l’innovazione. Ora, le premesse culturali sono, in quasi tutti i casi, lunghe dissertazioni sul rilievo culturale delle discipline e su aspetti epistemologici delle stesse, a volte generiche, a volte apertamente ispirate ad una tesi “di parte”. Il primo è il caso dell’introduzione all’Italiano, che omette però di argomentare adeguatamente le principali novità: il rilevo dato alla grammatica normativa e l’introduzione, fin dalla Primaria, della letteratura come parte separata rispetto all’apprendimento della lingua. Il secondo è il caso della Storia la cui premessa, oltre a schierarsi apertamente rispetto al dibattito politico-culturale attuale (l’eccezionalità dell’Occidente, l’Europa assorbita senz’altro dall’Occidente medesimo, la centralità dell’identità italiana intesa come entità ideale dipanatasi linearmente nel percorso storico), ambisce a diventare il vero manifesto ideologico dell’intero documento. Ma anche la parte sulla Matematica, ad esempio, si dilunga in una riflessione filosofica sul rapporto fra matematica e natura, citando fra l’altro solo autori che propendono per il carattere “inesplicabile” della relazione. Ne risulta un insieme disomogeneo, a volte persino contraddittorio, come nel caso della Storia stessa rispetto alla Geografia. Fra l’altro, la premessa di quest’ultima è l’unica che citi un documento della ricerca internazionale sulla didattica disciplinare. 

Le finalità si presentano talvolta come un elenco poco accurato: nella parte dell’Italiano, ad esempio, l’alfabetizzazione funzionale è elencata sullo stesso piano dell’uso della punteggiatura. Soprattutto, si nota in molti casi una sovrapposizione fra obiettivi specifici e conoscenze. Queste ultime, che sono la vera novità delle Indicazioni 2025, consistono - in forma narrativa e/o di elenco - in insiemi dettagliati - a volte puntigliosi - di contenuti. A cui si aggiungono, altrettanto dettagliate, le indicazioni interdisciplinari, metodologiche e tecnologiche. Nel complesso, un diluvio di vere e proprie prescrizioni presentate, senza nemmeno troppa convinzione, come semplici suggerimenti. Ed è questa, in definitiva, la vera sostanza del documento.

Ma allora:  dal punto di vista dei docenti e del loro lavoro concreto, a che servono le dissertazioni iniziali? Perché si continua a parlare di apprendimento per competenze, se di fatto al centro tornano alla grande i contenuti di conoscenza? Che fine fa l’autonomia delle scuole se, di fatto, si sta tornando ai vecchi programmi? E perché si continua a dire, come fa il documento, che gli insegnanti sono i veri curruculum makers (sic) e il principio deve essere non multa sed multum? 

Nella scuola alla vecchia maniera centrali sono i contenuti (come da programma ministeriale),  i libri di testo li seguono puntualmente e fanno da curriculum di fatto per i singoli docenti, i “laboratori” e gli approfondimenti disciplinari stanno in appendice. Qualcuno potrà dire che in molte scuole funziona ancora così ma forse il messaggio che si vuol dare è proprio questo, che va bene così. [3]

3. Credo sia la prima volta in assoluto che si forniscano indicazioni per una materia che non esiste. Il Latino (per l’educazione linguistica, si è aggiunto) ad oggi non esiste nel piano di studi della Secondaria di primo grado. Infatti si dice che “la conoscenza della lingua e della cultura latina va auspicabilmente avviata nel corso degli ultimi due anni” [4].  Non si sa ancora chi la insegnerà e a chi - in ambienti ministeriali si continua a parlare di facoltatività - e per quante ore; intanto si scrivono finalità, obiettivi e conoscenze. 

Leggendo i quali, ci si rende conto che chi li ha redatti, realisticamente, ha limitato il traguardo delle conoscenze linguistiche specifiche alla prima e alla seconda declinazione e al modo indicativo dei verbi. Con queste basi l’alunno potrà arrivare al più e “con la guida dell’insegnante ... a comprendere il senso globale di frasi elementari e testi latini semplici (es. aforismi e proverbi, formule epigrafiche...)”. [5]  L’intento -  tante volte manifestato nelle “anticipazioni” di questi mesi per giustificare i ritorno del latino -  di accostare i giovanissimi ai testi originali della grande tradizione classica è del tutto fuori portata. Non era difficile capirlo. Quello che pare  ragionevolmente raggiungibile è, forse, una migliore comprensione dell’italiano nelle sue radici soprattutto lessicali - anche un significativo “confronto degli elementi morfosintattici” appare problematico, dal momento che la comprensione “globale” è limitata appunto a piccole frasi (gli aforismi e le epigrafi presentano in genere, proprio per esigenze di sintesi, strutture niente affatto semplici). Ci si torna allora a chiedere quale sia il senso e l’urgenza di dare per scontata l’ introduzione di una nuova materia - forse facoltativa - con un appesantimento ulteriore dei contenuti prescritti, anziché sviluppare - per tutti - una delle finalità già presenti nell’insegnamento dell’Italiano. Se non, forse, per rinforzare un segnale politico-culturale di ritorno al passato.

Viste le citazioni e gli aforismi che appaiono di frequente nel testo delle nuove Indicazioni - direi più per vezzo che per reale necessità - si può temere che l’insegnamento del Latino si risolva nella memorizzazione di frasette da citare alla bisogna come sfoggio di cultura classica. Il buon vecchio latinorum degli istruiti di una volta, ma con le opportune ibridazioni tecnologiche.


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[1] Nuove Indicazioni 2025. Scuola dell’Infanzia e Primo ciclo di Istruzione. Materiali per il dibattito pubblico, pag. 11.

[2] Ibidem, pag. 9.

[3] Proprio ieri - 2 aprile - il ministro Valditara, rispondendo ad una interrogazione parlamentare, ha detto che le Indicazioni entreranno in vigore nel settembre 2026, soprattutto per dar tempo agli editori di adeguare i libri di testo, poi le scuole potranno costruire i propri curricoli.

[4] Ibidem, pag 48.

[5] Ibidem, pag 49.

 

Saturday, March 1, 2025

LA BATTAGLIA DEL LATINO - Dagli anni '60 ad oggi (aspettando Cuore)

 Quella che qualcuno chiamò “la battaglia del latino” si combatté nell’ultima fase della discussione parlamentare sul testo finale della legge di riforma della scuola Media - dieci giorni di interventi in aula alla Camera nel dicembre del 1962 - e riguardò appunto l’insegnamento del latino nel nuovo ordinamento. 

La Sinistra, che aveva spinto per la scuola media unica e per tutti fin dalla metà degli anni ‘50, non lo voleva, a differenza della Destra (liberali e MSI) che faceva   del suo mantenimento una questione di principio e di gran parte della DC, che subiva una pressione piuttosto forte da parte del Vaticano. [1] Il PCI, in particolare, aveva aperto la discussione sulla Media unica già nel 1955 con la fondazione di una rivista, non a caso intitolata Riforma della scuola, per poi presentare una proposta di legge nel 1958 che indicava come nuovo asse pedagogico “la formazione del cittadino di una società democratica”. [2] Principale protagonista di quella elaborazione collettiva fu il direttore della rivista, Lucio Lombardo Radice, un grande intellettuale appassionato della cultura dell’educazione. Con lucidità e lungimiranza immaginò una scuola rivolta alla formazione integrale dell’individuo, in cui l’affermazione del pensiero scientifico - cioè critico e fondato sull’esperienza - non significava affatto la riduzione dello studio a finalità pratiche, come pretendeva la tradizione idealistica che identificava scienza e tecnica relegandole al perseguimento dell’utile. Né si intendeva disconoscere, di per sé, il potenziale formativo del latino, riservandone lo studio ai livelli successivi di istruzione in relazione alla necessità di definire l’ambito delle conoscenze e delle competenze di base irrinunciabili - si direbbe con il linguaggio di oggi - da acquisire  entro la fase dell’obbligo. 

Un accordo fra DC e socialisti - che condividevano nella sostanza la posizione del PCI ma davano priorità all’approvazione comunque della legge - sbloccò il voto finale. Il compromesso  prevedeva l’inserimento per tutti di “Elementari conoscenze del latino” all’interno dell’insegnamento  di Italiano, poi, in terza, l’insegnamento facoltativo del latino come materia autonoma. [3] Il voto contrario di comunisti - simmetrico a quello di missini e liberali - non fu  dovuto soltanto al compromesso sul latino ma certo anche questa “facoltà di scelta” parve incrinare il principio di unitarietà che stava a fondamento della riforma. Come scrisse un deputato dell’opposizione: per molti “il latino era e doveva restare la discriminante fra i futuri membri della classe dirigente e i destinati ai mestieri tecnici.”

Come tutti sanno, diversi annunci hanno anticipato che le nuove Indicazioni nazionali per il primo ciclo porteranno alla reintroduzione dello studio latino nella Secondaria di primo grado. In una forma, pare, simile al compromesso del ‘62: facoltativo nelle classi seconda e in terza. In una recente intervista la presidente della  commissione che ha redatto le Indicazioni, a chi le chiedeva perché non si sono valutate altre possibili discipline o attività da modificare o da introdurre, ha risposto che non si può studiare tutto e quindi bisogna scegliere e “darsi delle priorità”. Ma, appunto, quello che non si capisce è quale priorità giustifichi il ritorno del latino. Forse occorrerebbe partire col chiedersi cosa funziona e cosa no nella scuola media di oggi, quale “base comune” di conoscenze e competenze è necessaria oggi per le ragazze e i ragazzi di 14 anni, insomma cosa è possibile fare per migliorare la condizione attuale di quello che tutti riconoscono essere il segmento più critico del nostro sistema scolastico. Tanto più che che le attuali Indicazioni, oltre che relativamente recenti, sono uno dei documenti più condivisi e pedagogicamente fondati della storia della nostra scuola. Le “ragioni” dei fautori del latino sembrano invece ricalcare stancamente quelle di sessant’anni fa: la salvaguardia delle nostre tradizioni, il valore della cultura classica, l’approfondimento della nostra lingua, il valore della versione di latino come esercizio di problem solving (questo termine poco classico è forse l’unico elemento di novità). Argomenti su cui si può anche discutere ma che prescindono del tutto dalla  questione essenziale: perché questa materia a questo livello di istruzione, in relazioni a quali esigenze emergenti dalla pratica didattica concreta, e, oltretutto, come scelta facoltativa ma sottratta all’autonomia delle scuole.

Il fatto è che il latino ha un forte potere evocativo. E’ un segnale.  Quello della volontà di tornare indietro: ad una scuola seriaautorevole, radicata nelle specifico della Nazione e della sua identità - come si presume, a torto, fosse la scuola prima di quella lontana “battaglia”. Ad un Ministero che detta contenuti. Ad un impostazione per materie, ciascuna dotata di attributi formativi intrinseci (quelle che “aiutano a pensare”, quelle rivolte al fare, quelle creative e così via). E - diciamolo - anche alla distinzione fra chi il latino lo ritroverà anche dopo e quindi tanto vale si prepari e chi si rivolgerà a studi più “utilitaristici” (cfr. riforma dell’istruzione tecnico-professionale). Naturalmente, nell’ottica della valorizzazione dei diversi talenti. Un segnale politico, in fin dei conti, che poco ha a che vedere con la realtà del “fare scuola”.

A questo punto, dopo il ritorno del latino e dell’umiliazione del reo come “fattore di crescita” [4], qualcuno potrebbe pensare: e la lettura di Cuore alle scuole elementari (oggi primarie dopo un aberrante cambio lessicale)? Tranquilli, la sunnominata presidente di commissione ha già scritto, a questo proposito, che Cuore si propone come manifesto pedagogico della scuola di ogni tempo nonché come perfetta sinossi di una rieducazione genitoriale più ergente che mai... il libro rende immediatamente leggibile da parte del lettore la differenza fra il bene e il male. Cosicché, dunque, c’era proprio bisogno di inserire nel curricolo scolastico un ennesimo insegnamento di educazione civica, come è stato fatto nel 2019, o non sarebbe forse bastato riprendere Cuore e riportarlo nelle aule?  In modo che, per mettere al centro l’insegnante, il maestro Perboni diventi il modello del perfetto mediatore fra la formazione e la vita [5].  L’infame Franti è avvertito.


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 La Chiesa emanò una costituzione apostolica, Veterum sapientia, nel febbraio del ‘62, che difendeva l’insegnamento del latino. L’intervento nel dibattito apparve piuttosto incongruo, dal momento che nella stessa Chiesa si discuteva apertamente della rinuncia al latino nella liturgia, che fu poi sancita dal Concilio già indetto per la fine di quell’anno.

 2.  Al dibattito parteciparono scienziati come Carlo Bernardini e filosofi come Antonio Banfi e Giulio Preti. Persino Concetto Marchesi, il grande latinista scomparso nel 1957, che pure difese il latino in numerosi interventi, finì per interrogarsi su quale età fosse più adatta per l’avvio dello studio nel suo ultimo intervento sulle pagine della rivista.

 3 L. 1859 del 31 dicembre 1962, art. 2, c. 3 Nella  seconda  classe l'insegnamento dell'italiano viene integrato da elementari conoscenze di latino, che consentono di dare all'alunno una prima idea delle affinità e differenze fra le due linguec. 4 Come materia autonoma, l’insegnamento del latino ha inizio in terza classe; tale materia è facoltativa

 4 Ci si riferisce ad un'espressione usata dal Ministro Valditara durante un intervento tenuto a Milano il 21 novembre 2022 e largamente ripreso dalla stampa, in cui si anticipava l’intenzione di introdurre norme disciplinari più severe nei confronti degli studenti e delle studentesse.

5  Tutte le citazioni in corsivo, compresa quella sull’aberrante cambiamento di nome sono tratte dal cap. 4  Dal dire al fare attribuito a Loredana Perla nel volume E. Galli della Loggia, L. Perla Insegnare l’Italia, scholè, 2023, pagg. 98 - 102

LA PROIBIZIONE DEI CELLULARI - Un'altra circolare del Ministro

  Il 16 giugno scorso il Ministro dell’Istruzione ha inviato una nota ai DS degli Istituti di Secondo grado in cui “si dispone anche per gli...