Wednesday, November 20, 2024

IL FUTURO DELL'INTELLIGENZA (ARTIFICIALE) 1 Troppo e troppo poco.


Il Ministero dell’Istruzione e del merito ha promosso all’inizio di quest’anno scolastico una sperimentazione della Intelligenza artificiale nelle scuole secondarie di I e di II grado, coinvolgendo 15 classi di altrettanti Istituti in quattro regioni. Gli obiettivi sono: “personalizzare la didattica, valorizzare i talenti degli studenti e supportare chi ha difficoltà di apprendimento. Presentando l’iniziativa nell’ottobre scorso, il Ministro ha dichiarato che “Siamo tra i primi paesi a partire con l’IA a scuola e questo ci riempie di orgoglio. Le nazioni nelle quali questa sperimentazione ha preso il via, in particolare in Corea del Sud, stanno avendo risultati eccezionali”. Per la verità, la Corea del Sud avvierà un piano per l’introduzione di “libri di testo digitali supportati dalla AI” solo nel 2025. I risultati del piano, che interesserà seimila scuole primarie, medie e superiori, con un investimento di 70 milioni di dollari, si conosceranno solo al termine della prima fase, nel 2028. L’approvazione del piano ha suscitato in Corea un acceso dibattito parlamentare sulla libertà di insegnamento e la reazione critica di oltre 50.000 genitori che hanno firmato una petizione per chiedere al governo di concentrarsi meno sulle nuove tecnologie e di più sul benessere generale degli studenti (1).

Intanto, nel nostro Paese si susseguono a ritmo incalzante convegni e seminari sulla IA in campo educativo (AIED). Il tono generale sembra lo stesso dell’annuncio ministeriale: l’IA è il nuovo elemento determinante dell’innovazione didattica che sarà in grado di rivoluzionare in senso positivo la scuola. E' una'impostazione che, a mio parere, considera e propone, allo stesso tempo, troppo e troppo pocoTroppo, in quanto considera l’IA, di fatto, non molto più che la più aggiornata e potente fra le tecnologie digitali e come tale ne propone l’introduzione  nella scuola.

L’UNESCO ha dedicato il suo annuale Rapporto Globale sull’Educazione del 2023 (GEMR 23) proprio all’uso della tecnologia digitale nell’educazione globale, con una parte specifica sull’AIED che, a sua volta, tiene conto del dialogo internazionale iniziato con la Conferenza di Pechino del maggio 2019. Il documento finale di quell’incontro - il Beijing consensus (2) -  ha fissato i principi chiave in campo educativo della human-centred AI: i sistemi di IA non possono sostituire in alcun modo gli/le insegnanti, il tempo che consentono di risparmiare per le funzioni ripetitive deve essere reinvestito nell’aspetto relazionale del processo di apprendimento e nella sua  personalizzazione, anch’essa supportabile dalla tecnologia.

Il GEMR 23, a sua volta,  ha fornito un panorama di esperienze esteso a tutti i Paesi del mondo, citando una quantità notevole di studi scientifici, di analisi “sul campo” e di meta-analisi. Le conclusioni (3) meritano di essere lette con attenzione: “La tecnologia ha grandi promesse per migliorare i processi di processi di insegnamento e apprendimento. Tuttavia, le evidenze del loro successo sono limitate e questo è particolarmente vero per le ricerche condotte su larga scala al fine di stabilire come la tecnologia possa facilitare i cambiamenti positivi in modo duraturo e in contesti diversi. Attribuire specifici e conclusivi risultati di apprendimento ad hardware o software è ancora difficile. [...] Le evidenze sull'efficacia della tecnologia dimostrano che, oltre a influenzare i risultati individuali dell'apprendimento, essa può sia facilitare che danneggiare i processi di insegnamento e apprendimento. Sebbene la tecnologia offra molte possibilità di integrare e personalizzare l'insegnamento, [...] può anche aumentare il rischio di distrazione e disimpegno. I governi devono basare le loro decisioni riguardo la diffusione su larga scala su prove affidabili che analizzino gli effetti a lungo termine degli interventi  e considerando attentamente tutti gli aspetti pedagogici coinvolti.” Infatti, le evidenze dimostrano che “gli interventi tecnologici di successo si basano su elementi già da tempo consolidati, quali un forte contributo pedagogico da parte degli insegnanti, l’ampliamento del tempo di insegnamento,  una  solida collaborazione”.

Anche il tema specifico della IA è affrontato attraverso un’attenta ponderazione di potenzialità e rischi. La IA “viene applicata in vario modo all'istruzione da almeno 40 anni” e  la novità è data semmai dai sistemi basati sui Large Linguage Model (LLM) che, attraverso l’elaborazione di una quantità immensa di dati, sono in grado di generare nuovi contenuti. Vi sono esempi di uso indubbiamente promettenti come il tutoraggio degli studenti, il supporto per la preparazione delle lezioni e delle verifiche, la correzione dei testi delle prove, le esperienze di apprendimento immersivo”. Ma ci si chiede se, “mentre molte tecnologie precedentemente promosse come trasformative non sono state all'altezza delle aspettative, la pura e semplice crescita della potenza di calcolo dietro l'IA generativa  possa essere il punto di svolta. La risposta è quanto meno problematica.  Se e come l'IA possa essere utilizzata nell'istruzione è una questione apertaAnche se perfezionati, questi strumenti potrebbero essere macchinosi e non apportare alcun miglioramento. [...] Sono necessarie ulteriori evidenze per capire se [essi] possono cambiare il modo in cui gli studenti imparano, al di là del livello superficiale di correzione degli errori. La loro diffusione potrebbe amplificare i rischi menzionati in questo rapporto. - come la tendenza a non verificare le fonti delle informazioni ottenute o ad assimilare pregiudizi veicolati dagli  stessi LLM. Senza contare che, per esempio, se le differenze nei tempi di apprendimento degli studenti vengono gestite in modo errato, potrebbero aumentare i divari nei risultati . D’altra parte, per le/gli insegnanti “non cambia fondamentalmente l'insieme delle competenze digitali essenziali che erano state definite prima della sua comparsa. I programmi di sviluppo professionale potrebbero dover essere adattati in qualche modo per riflettere i nuovi modi di assegnare i compiti e valutare gli studenti. Ma, soprattutto, la competenza generale degli insegnanti rimane cruciale per fare scelte pedagogiche appropriate durante l'uso di questa tecnologia.

Questa riaffermata centralità delle scelte pedagogiche nelle politiche educative apre la strada ad un altro livello di riflessione. Se “la tecnologia digitale sta diventando onnipresente nella vita quotidiana; sta raggiungendo gli angoli più remoti del mondo; sta creando nuovi mondi, in cui i confini tra reale e immaginario sono più difficili da distinguere” - se, si potrebbe aggiungere, i Big Data stanno diventando la più importante risorsa economica e il “mondo digitale” sta condizionando lo sviluppo intellettuale ed emotivo della nuova “generazione ansiosa” (4) - la domanda cruciale diventa: “cosa significa essere istruiti in un mondo plasmato dalla IA”?. Dunque, quali capacità occorre sviluppare nei cittadini di questo mondo che è già “oggi”, quali curricoli ci servono, quale scuola dobbiamo (ri)costruire e, alla fine, quali scelte etiche e politiche - non solo di etica speciale dell’IA e non solo di politica dell’educazione - sono necessarie? 

Educare al digitale non è la stessa cosa dell’educare con il digitale; è decisamente di più. Per questo, l’entusiasmo tecnologista per l’IA penso sia, altrettanto decisamente, troppo poco rispetto a quest’ordine di problemi. Per orientarci nei quali servono i testi che animano il dibattito internazionale sull’AIED ma ancor di più le ricerche più attuali della filosofia  e della teoria critica della società. Non a caso.

Torneremo a parlarne.

 

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(1) Alcuni parlamentari hanno proposto di considerare le applicazioni di IA non come “libri di testo”, da adottare obbligatoriamente, ma come “materiale didattico” adottabile o meno su decisione di ciascuna scuola. Nella petizione citata si legge, fra l’altro: “Noi, come genitori, stiamo già incontrando molti problemi a livelli senza precedenti derivanti dall'esposizione dei nostri figli ai dispositivi digitali”.

(2) Beijing consensus Outcome document of the International Conference on Artificial Intelligence and Education ‘Planning education in the AI era: Lead the leap’16 – 18 maggio 2019, PechinoRepubblica popolare di Cina

(3) Sono le conclusioni della Quarta parte - Insegnamento e apprendimento -  (pagg 66-84) del Rapporto, da cui sono tratte le citazioni in corsivo nel testo

(4) E' il titolo dell'ultimo libro di Jonathan Haidt (2024), che sta animando un vero e proprio movimento di opinione negli Stati Uniti.

Friday, November 1, 2024

IL TALENTO DELLA RIFORMA - Considerazioni su intelligenze, equità e percorsi scolastici

Il Ministero dell’Istruzione e del Merito ha da poco ripristinato la Direzione generale per l’istruzione tecnica e professionale. ll suo neo-direttore generale ha illustrato la  riforma della “filiera tecnico-professionale” - definita come la “principale sfida” del suo nuovo Ufficio - riassumendone così la filosofia: “ci vogliono scuole diverse per intelligenze diverse”. Lo stesso Ministro Valditara ha citato la teoria delle intelligenze multiple  come fondamento della sua scuola dei talenti. A questa idea di scuola il sociologo Luca Ricolfi - nel suo recente La rivoluzione del merito - ha aggiunto una nota di ugualitarismo (e di lirismo): il talento, in quanto componente essenziale del merito,  è “il più ugualitario dei doni, visto che può posarsi su una reggia come su un tugurio”. La teoria di Gardner è ormai un punto fermo negli studi sull’apprendimento; talento suggerisce l’idea di qualcosa di unico e prezioso da coltivare con cura. Chi può non essere d’accordo, dunque? Eppure, una pur sommaria analisi della riforma in questione fa sorgere qualche dubbio e spinge ad un approfondimento.

Il cosiddetto Modello 4+2, attualmente in sperimentazione in circa 170 scuole italiane, nasce da un problema reale - la riconsiderazione del rapporto fra formazione e mondo dei lavori in fortissima trasformazione - e presenta anche spunti condivisibili. Tuttavia, la riduzione a quattro anni dei percorsi “riformati”, che è obiettivamente al centro del modello, produce due conseguenze: fa crescere la differenziazione dei primi bienni, perché, in un percorso più breve, le materie di indirizzo avranno più peso rispetto a quelle di istruzione generale (con una decurtazione di almeno 99 ore sul monte orario complessivo) e già dalla Seconda inizieranno i percorsi di alternanza scuola-lavoro (ora PCTO); consolida la differenza fra il canale tecnico-professionale e quello dei Licei, che pare rimangano di cinque anni, fino a far intravedere una dualità degli sbocchi “naturali” post diploma: l’Università per i liceali, il lavoro o semmai gli  Istituti Tecnici Superiori, per i diplomati dei tecnici e professionali. Concretamente, se la riforma si affermerà, la scelta dei ragazzi e delle ragazze dopo la Media, che fin ora si era cercato di “sdrammatizzare” con bienni largamente unitari e passaggi agevolati almeno fino al terzo anno, ritornerà ad essere decisamente più “impegnativa”. O, se vogliamo dirla in termini più tecnici: la tendenza al de-tracking, costante in tutta la storia della scuola repubblicana, conoscerà un’inversione.

Il tracking è appunto - nel linguaggio degli studi sulle politiche scolastiche -  la separazione dei percorsi di studio ad un certo punto del percorso, che fu elevata a 14 anni con la Scuola media unica, la vera riforma fondativa della scuola della Repubblica,  nel 1962.   Dopo di allora si era semmai discusso di ritardare ulteriormente o comunque attenuare la “biforcazione”, agendo proprio sul segmento che nel frattempo è entrato nell’obbligo di istruzione. Come si giustificano allora le scelte di oggi con i talenti e le diverse intelligenze? Viene da pensare che, dietro la forma aggiornata del linguaggio “pedagogicamente corretto”, si ripresenti la vecchia idea secondo cui c’è chi nasce per la teoria e chi per la pratica (o, se preferite, con l’intelligenza teorica o con quella pratica); in definitiva, chi è portato per lo studio fine a se stesso e chi per lo studio finalizzato al lavoro. Perché così ha deciso chi conferisce il “dono”. In occasione del dibattito  parlamentare sulla riforma del ‘62, un parlamentare il principale partito di maggioranza, che pure approvò la riforma, si rivolgeva preoccupato ai colleghi chiedendo: “perché dobbiamo portare tutti i ragazzi allo stesso livello a 14 anni? E’ contro natura! Guardiamo i nostri nasi: sono tutti belli, ma sono anche tutti diversi” (1) . A quei tempi le intelligenze multiple non erano state ancora inventate.

Proprio Haward Gardner scrive, nella sua autobiografia intellettuale  - Una mente sintetica - che la teoria delle intelligenze multiple ha finito ormai per assomigliare “a una tavola dei test di Rorschaach, in cui ciascuno vede quel che vuol vederci”. Né ad essa si può far corrispondere un modello di scuola, perché “non esiste un unico approccio educativo ispirato alle intelligenze multiple”, ciò che conta è semmai “decidere cosa si vuol ottenere e perché”. Quel che si vuol ottenere credo sia certamente un nuovo dialogo fra formazione e lavoro, nella distinzione dei ruoli e delle funzioni; la valorizzazione delle individualità; la cura particolare verso chi “fa fatica” e rischia  di andare fuori dal sistema. E, di conseguenza, la riduzione delle disuguaglianze ovvero l’equità delle opportunità e anche dei risultati, almeno fin ad un livello di apprendimento adeguato alla società di oggi. Perché questo richiede la Repubblica che riconosce il merito e allo stesso tempo rimuove gli ostacoli allo sviluppo della personalità. In un Paese in cui cresce la povertà educativa e la scuola non riduce i divari ma semmai li consolida progressivamente; in cui la divisione di classe si esercita principalmente proprio attraverso la canalizzazione, tutt’altro che “naturale”, dei percorsi(2)

Certamente non ci sono soluzioni facili e gli esiti dei sistemi scolastici sono comunque condizionati dai rispettivi contesti socio-economici. Tuttavia, dalle ricerche internazionali vengono indicazioni generali basate su evidenze empiriche. Le sintetizzano bene Benadusi e Giancola nel loro Equità e merito nella scuola. I sistemi “comprensivi” (in cui il tracking avviene più tardi) mostrano livelli di equità più alti in modo significativo rispetto a quelli “selettivi” (che lo anticipano) senza per questo dover abbassare i livelli delle prestazioni degli alunni - accertabili attraverso rilevazioni come quelle di OCSE-PISA - che dipendono piuttosto dalla diffusione di metodologie didattiche innovative e dalla formazione dei docenti. 

Le più recenti riforme in Europa seguono in effetti questa linea. La Germania - da sempre caratterizzata da un sistema fortemente “duale” - ha operato una progressiva inversione in senso “comprensivo” dopo un forte dibattito conseguente alla pubblicazione di dati OCSE-PISA sulla scarsa equità degli esiti unita ad un livello comparativamente non elevato degli apprendimenti. Con l’ultima riforma della Secondaria, la Francia ha introdotto, dopo uno “zoccolo” fortemente unitario, una quota di materie e attività scelte dal ciascuna studentessa e studente ma all’interno degli indirizzi previsti. La tendenza largamente prevalente nei diversi Paesi è comunque di spingere fino a 16 anni la diversificazione, in modo che la valorizzazione della diversità diventi davvero un principio di personalizzazione dell’apprendimento, anziché di classificazione e selezione secondo vere o presunte intelligenze. 

D’altra parte, proprio le tecnologie digitali consentono oggi di affrontare molto più efficacemente i problemi organizzativi e didattici legati alle strategie di individualizzazione. A cominciare dalla molto discussa Intelligenza artificiale.

 

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(1) Lo riporta Luigi Ambrosi nella sua ricostruzione La scuola media dei conservatori - l'opposizione delle destre alla riforma del 1962 su Rivista di storia della scuola (2023)

(2) Per citare la più recente ricerca sulle disuguaglianze insite nel sistema scolastico italiano (settembre 2024) , condotta dall’Osservatorio nazionale sulle politiche sociali - Welforum:

La stratificazione della scuola superiore per indirizzi rappresenta la prima direttrice di (dis)uguaglianza: sebbene tutti gli studenti abbiano facoltà di scelta, questa è nei fatti largamente determinata dalla provenienza socioeconomica dei genitori. L’analisi dei dati di Alma Diploma mostra, infatti, che al Liceo classico due terzi degli studenti hanno genitori laureati e meno del 10% proviene da famiglie in cui i genitori non hanno il diploma. Nei professionali per l’industria e l’artigianato, invece, l’11% degli studenti ha genitori laureati, il 39% genitori diplomati, e la metà genitori senza diploma.

LA PROIBIZIONE DEI CELLULARI - Un'altra circolare del Ministro

  Il 16 giugno scorso il Ministro dell’Istruzione ha inviato una nota ai DS degli Istituti di Secondo grado in cui “si dispone anche per gli...