Il 16 giugno scorso il Ministro dell’Istruzione ha inviato una nota ai DS degli Istituti di Secondo grado in cui “si dispone anche per gli studenti del secondo ciclo di istruzione il divieto di utilizzo del telefono cellulare durante lo svolgimento dell’attività didattica e in generale in orario scolastico”. L’anche si riferisce al fatto che analoga “disposizione” era stata impartita in precedenza alle scuole del primo ciclo.
Va innanzitutto ricordato che la generalità delle scuole c.d. “superiori”, seguendo le linee di indirizzo del Ministero del 2007 [1], avevano già da tempo adottato la politica di limitare l’uso dello smartphon esclusivamente ad attività didattiche e sotto la guida degli insegnanti. Dunque la nuova circolare non interviene su una situazione di uso selvaggio dei dispositivi - come si può essere indotti a credere. Si poteva proseguire sulla quella strada, facendo un bilancio dell’esperienza già maturate, rendendo semmai più cogente la limitazione, specificando meglio il possibile ”uso didattico” anche alla luce delle migliori pratiche. Si è scelta un’altra strada, quella di un divieto assoluto, senza alcun approfondimento dell’aspetto educativo, salvo un riferimento generico alle Indicazioni per l’educazione civica. Un divieto imposto, come si diceva, attraverso una nota del Ministro. Circostanza che pone intanto una “questione preliminare”.
La nota infatti ordina (futuro deontico: “le istituzioni scolastiche provvederanno...”) ai consigli di Istituto di adottare una delibera di modifica del proprio regolamento prevedendo anche “specifiche sanzioni” per i contravventori del divieto. All’autonomia scolastica” è rimesso nient’altro che “l’individuazione delle misure organizzative” atte ad assicurarne il rispetto. Ma in base a quale potere e a quale competenza il Ministro può imporre ad una istituzione autonoma di modificare il proprio regolamento su un tema di rilevanza sia organizzativa che didattica? Oltretutto rivolgendosi ad una figura - il dirigente - che non presiede neppure l’organismo elettivo che ha invece la competenza per farlo.
Certamente lo Stato ha il potere di stabilire un principio o un divieto valido per tutte le scuole d’Italia ma credo che lo debba fare con un atto normativo, che avrebbe anche comportato il confronto fra diverse posizioni e con le scuole stesse. Non è quindi una questione solo formale. Ed è ormai evidente la tendenza del Ministero a dare dell’autonomia scolastica una interpretazione - diciamo - alquanto restrittiva. Soprattutto in funzione di interventi diretti su questioni che - probabilmente non a caso - paiono suscitare il consenso immediato fra le famiglie. Si veda la nota sui compiti a casa o la comunicazione, direttamente rivolta ai genitori, sulla organizzazione delle attività estive di quest’anno.
Nel merito, la nota del 16 giugno richiama due documenti internazionali, uno prodotto dall’OCSE nel 2024 (OCSE ‘24) [2] , l’altro dell’ Organizzazione mondiale della sanità nello stesso anno. Il primo è un “documento di lavoro” che analizza un dato rilevabile dalla serie storiche dei risultati di OCSE-PISA: il sistematico declino dei rendimenti degli studenti in tutte e tre le aree di rilevazione dal 2009 ad oggi, dopo una crescita nel periodo precedente. Questo dato è correlato - secondo OCSE ‘24 - ad un declino della produttività riscontrabile nei Paesi dell’organizzazione, conseguente all’entrata nel mondo del lavoro delle coorti “licenziate” dal sistema scolastico dopo il 2009. L’analisi porta all’individuazione di quattro cause fondamentali: il COVID -19, che ha accentuato notevolmente la curva già discendente senza che il ritorno alla normalità abbia ripristinato, se non in parte, gli esiti precedenti; la qualità degli insegnanti - sulla quale pesano soprattutto il basso livello delle retribuzioni e l’insufficiente prestigio sociale; le (mancate) riforme delle politiche scolastiche di molti paesi ed anche “l’uso, fino a poco tempo fa ampiamente non regolamentato, dei dispositivi digitali nelle classi”. Si potrebbe notare, di passaggio, che fra le mancate riforme il rapporto - che pure non smentisce una visione chiaramente “economicista” dell’educazione - indica in particolare: l’ancora scarso investimento sull’educazione della prima infanzia e l’early tracking, ovvero la scelta precoce dell’indirizzo di studi. [3]
E poi, appunto, la questione degli strumenti digitali, che OCSE ‘24 affronta da più punti di vista. Quello dell’influenza negativa sull'ambiente di apprendimento dell’uso non regolato e non strutturato degli smartphoni, poiché essi, rappresentando una fonte di distrazione più immediata, possono “indebolire la concentrazione, ostacolare la comprensione e impedire la memorizzazione”. Quello dell’influenza indiretta sull’apprendimento degli adolescenti che sviluppano una “dipendenza da smartphone”, “con conseguente aumento dei tassi di ansia e disturbi ... che possono contribuire a un rendimento scolastico inferiore”. Ma anche quello di un uso non ben strutturato degli strumenti digitali da parte di insegnanti non adeguatamente preparati. Si osserva. - senza dimenticare potenziali vantaggi come il coinvolgimento degli studenti, la personalizzazione, le nuove competenze digitali per futuri lavori - che “un eccessivo affidamento alla tecnologia può compromettere le capacità di pensiero critico, poiché gli studenti diventano dipendenti da risposte rapide provenienti dai motori di ricerca anziché sviluppare capacità di problem solving. Può anche portare alla perdita di competenze di base come la scrittura a mano e l'aritmetica”. Non a caso, OCSE ‘24 inizia la parte che qui interessa con una frase lapidaria: “I dispositivi digitali nelle classi erano, un tempo, considerati rivoluzionari per la professione docente ”.
Il citato rapporto dell’OMS [4] aggiunge una quantificazione statistica che mette in guardia dai rischi connessi all’uso dei social media e dei giochi on line ma non autorizza visioni catastrofiste. Si rileva un aumento leggero della percentuale delle ragazze e ragazzi considerati consumatori problematici , cioè potenzialmente a rischio (dall’7 all’ 11%) dal 2018, considerando anche la spinta impressa dal COVID al consumo digitale. Ma il dato risulta assai variabile fra paese e paese e accanto a aumenti significativi si notano anche percentuali stabili o addirittura in regresso. Per significare che non c’è un destino già scritto.
OCSE ‘24 segnala infine la tendenza, di molti paesi, a limitare decisamente l’uso dei dispositivi a scuola. Tuttavia, anche qui, il quadro è variegato e in evoluzione. La maggior parte dei divieti riguarda la primaria e, semmai, il livello successivo fino a 15 anni. La maggior parte degli Stati prevede comunque l’uso “per scopi pedagogici” anche dei cellulari, lasciando la regolamentazione di questo aspetto alle singole scuole - cioè grosso modo quello che era previsto finora in Italia. Alcuni Paesi prevedono strategie di riduzione di “esposizione agli schermi” riferiti anche all’uso di dispositivi in dotazione delle scuole. Praticamente tutti i provvedimenti restrittivi sono stati presi con atti legislativi, dopo dibattiti che hanno coinvolto le componenti scolastiche e/o in seguito a sperimentazioni più circoscritte. [5]
In conclusione, è certamente opportuno regolare e limitare la presenza degli smartphon a scuola. Quando si esegue un compito che richiede impegno intellettuale - e in certa misura anche fisico - come a scuola, è necessario mantenere la concentrazione, procrastinare l’impulso a controllare continuamente le “connessioni social”, distinguere gli usi appropriati e inappropriati degli strumenti digitali (come di tutti gli altri) in un contesto dato: questo è senz’altro un messaggio che la scuola deve dare. Ma per essere efficace è necessario che anche la “società degli adulti”, che la scuola stessa rappresenta agli occhi delle ragazze e ragazzi, si dimostri all’altezza del ruolo educativo che intende legittimamente svolgere. Non solo per il comportamento dei singoli, com’è ovvio, ma soprattutto per l’impostazione pedagogica collettiva. Mi riferisco ad un atteggiamento critico e “responsabile” in generale sull’uso dei dispositivi, che eviti l’ingenuo entusiasmo tecnologista e si concentri sulla relazione che si genera invece che sul dispositivo in sé; ad esempio: cellulare degli studenti per natura cattivo contro tablet, pc, Lim della scuola sempre buoni - come traspare dalla circolare del 16 giugno.
Mettere al centro la relazione pedagogica significa anche chiarire per quale impegno si chiede di rinunciare alla “connessione”. In estrema sintesi: se per il solito monologo dell’insegnante, magari “potenziato” digitalmente, o per la partecipazione di tutti alla scoperta e alla ricerca, usando il digitale - magari talvolta gli stessi smartphon - per coinvolgere e “ampliare gli orizzonti”. Altrimenti il rischio è che alla fine il messaggio implicito verso le studentesse e gli studenti in particolare del secondo ciclo, diventi un altro: gli adulti non hanno nulla da insegnare sulla tecnologia, sanno solo proibire per sfiducia verso gli adolescenti e, in definitiva, verso se stessi. Lo stesso rapporto dell’OMS, sollecitando a sua volta adeguate politiche di regolamentazione, sottolinea il metodo del dialogo con le famiglie e gli stessi studenti fin dalla prima infanzia, con strategie basate sulla capacità di differenziare gli interventi in base all’età, ai bisogni, al genere e anche sulla consapevolezza “della differenza tra l'uso intensivo e l'uso problematico dei social media e dei giochi”. Insomma il metodo di una scuola che unisce l’autorevolezza della limitazione alla capacità di dialogo e di condivisione.
Con la circolare del 16 giugno si è scelta, come si diceva, la strada di un divieto generalizzato, senza troppe preoccupazioni pedagogiche e di condivisione, fin dalla scelta della modalità di intervento. Affrontare problemi complessi con il semplice meccanismo del divieto-controllo-sanzione è una tendenza ormai dilagante nel tempo presente. In Italia e non solo. Che sia efficace, specie in un campo come l’educazione, è tutto da dimostrare.
P.S. E’ ormai molto diffusa, nei documenti internazionali e nel dibattito su questi temi, la citazione del libro di Jonathan Haidt La generazione ansiosa. [6] E’ un testo importante, ampiamente documentato e argomentato, anche se non sempre condivisibile. Ha una impostazione rivolta alla regolamentazione severa dei dispositivi. Tuttavia, il nucleo dell’argomentazione di Heidt è che il disastro compito dalle generazioni adulte ai danni degli adolescenti è dovuto, da una parte al lassismo verso gli smartphon, consegnati senza precauzioni a bambine e bambini anche molto piccoli, dall’altra alla iperprotezione degli stessi nel mondo reale, con la sottrazione dell’elemento del rischio, necessario per la crescita anche psicologica - quello che lui chiama il safetism. La convergenza dell’iperprotezione nel reale - inteso come fisico, corporeo - e dell’abbandono nel digitale hanno prodotto una generazione di soggetti fragili ed esposti ai disturbo psicologici. Haidt stesso sostiene che una scuola che mette al bando gli smartphon deve sviluppare con altrettanta forza il gioco, l’attività fisica, il coinvolgimento critico. Anche perché “un grammo di prevenzione vale più di un chilo di cura”.
Ora, è curioso che, mentre nel mondo anglosassone questo aspetto del safetism è stato ben compreso, tanto che negli USA sono sorte associazioni di genitori che si battono per un ritorno, anche a scuola, dei giochi autonomi e ragionevolmente “rischiosi”, [7] in Italia esso è stato quasi ignorato anche dagli estimatori del libro. E le scuole dell’infanzia e del primo ciclo, spesso incalzate dai genitori, continuano imperterrite a interdire spazi e momenti di gioco, specie all’aperto, in nome di una concezione esasperata e spesso irrazionale della sicurezza.
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[1] Si tratta della nota del 15 marzo 2007 contenente “linee di indirizzo e indicazioni sull’uso dei ‘telefoni cellulari’ durante le attività didattiche”
[2] From decline to revival: Policies to unlock human capital and productivity - OECD Economic Department Working Documents - 2024
[3] Ocse ‘24 osserva che, anticipando la scelta, “gli studenti con scarsi risultati provenienti da famiglie svantaggiate vengono spesso indirizzati verso percorsi professionali”; essi “sebbene possano fornire competenze specifiche per un lavoro immediato, rischiano di non fornire agli studenti competenze generali necessarie per l’apprendimento permanente”. Sarebbe interessante avere il commento del MIM, che sta impostando la riforma dell’istruzione tecnico-professionale proprio sull’anticipo della diversificazione degli indirizzi.
[4] A focus on adolescent social media use and gaming in Europe, central Asia and Canada: Health Behaviour in school-aged children report from 2021-2022 survey - WHO European Region - IRIS - 2024
[5] Si vedano in particolare gli esempi della Francia, con la legge del 3 agosto 2018, poi ancora modificata nel 2024 e la modifica della legge sull’istruzione dello Stato di New York approvata dall’Assemblea legislativa statale il 9 maggio 2025, che generalizza un’esperienza condotta per oltre un decennio dalla Città di New York.
[6] Jonathan Haidt La generazione ansiosa, Mondadori 2024
[7] E’ il caso dell’associazione Let grow che si definisce movimento per l’indipendenza dell’infanzia. Nel sito ufficiale si legge: “Rifiutiamo l'idea che [i bambini] siano costantemente esposti a pericoli fisici, emotivi o psicologici a causa di malintenzionati, rapimenti, frustrazioni, fallimenti, ladri di bambini, brutti voti, appuntamenti di gioco deludenti e/o pericoli legati a un'uva non biologica ... La nostra società è ossessionata dalla fragilità dei ragazzi ma trattandoli da esseri fragili li facciamo diventare proprio così”.