Friday, December 27, 2024

IL PRESENTE DELL’IGNORANZA - Il dibattito sul rapporto PIAAC e le competenze degli adulti italiani.

Nelle settimane precedenti alle feste di Natale si è discusso molto, su tutti i media, del livello di istruzione degli italiani, in seguito alla pubblicazione dei risultati dell’indagine effettuata in trenta Paesi aderenti al Programme for the International Assessment of Adult Competencies (PIAAC) promosso dall’OCSE, l’organizzazione dei Paesi economicamente più “avanzati”Il Programma si propone di misurare le competenze cognitive delle persone fra i 16 e i 65 anni nei domini della literacy, della numeracy e della adaptative problem solving (APS), per comprendere meglio il legame attuale e futuro fra competenze, istruzione e lavoro. L’indagine corrisponde, presso gli adulti, a quella analoga e più nota rivolta alle competenze degli studenti quindicenni (il c.d. OCSE PISA). 

Il Rapporto finale è documento di quasi 200 pagine - Do Adults Have the Skills They Need to Thrive in a Changing World? [1]L’informazione iper-semplificata che è passata sui media italiani ne riflette solo una minima parte, in pratica solo il risultato complessivo del nostro Paese [2]. Per scoprire che siamo messi male in tutti e tre i domini e ci collochiamo agli ultimi posti di tutte le graduatorie. I commenti poi si sono polarizzati fra coloro, i più, che prendono per buoni gli esiti e bollano di conseguenza la scuola italiana come la  “fabbrica dell’ignoranza” e coloro che manifestano scetticismo e si chiedono cosa abbiano da insegnarci i finlandesi - immancabilmente primi in tutte le classifiche - a parte la vita delle renne e la casa di Babbo Natale. Una lettura appena più ampia dei documenti fornirebbe un quadro meno scontato e condurrebbe verso responsabilità quanto meno più diffuse. 

Innanzitutto, è utile sapere quali sono, più precisamente, le competenze che, secondo il PIAAC, “è necessario avare per vivere bene in un mondo in cambiamento”. Cosa si intende dunque per literacynumeracy e APS [2]  Più che le definizioni, sono interessanti gli esempi riportati dallo stesso Rapporto. Per la literacy - potremmo dire l’alfabetismo funzionale - la prova-tipo riguarda la comprensione di un testo giornalistico e consiste in alcune domande per verificare se si siano enucleate le informazioni  essenziali. Per la numeracy - la competenza logico-matematica - si tratta del calcolo di quanti rotoli di carta occorra per tappezzare la parete di una stanza, conoscendo sia dati sia la soluzione, che tuttavia è sbagliata perché qualcuno ha computato i dati in modo scorretto; si deve appunto capire dove sta l’errore di impostazione e correggerlo. Il problem solving è rappresentato dalla individuazione di un percorso urbano su una mappa per congiungere nel modo più rapido diverse destinazione, adeguando però lo stesso percorso via via che arrivano informazioni aggiuntive sulla situazione della viabilità.

Non è difficile rendersi conto che i nostri studenti hanno cominciano appena in questi ultimi anni a misurarsi con prove di questo genere (i c.d. compiti di realtà). La nostra tradizione scolastica (ricordiamoci che almeno la metà dei test è stata fatta da persone di oltre quarant’anni) ha inteso in modo completamente diverso l’apprendimento dell’italiano e soprattutto della matematica, per non parlare dell’estraneità all’idea stessa di esercitare all’applicazione di conoscenze teoriche alla risoluzione di problemi di vita quotidiana. Siamo eredi, più di altri Paesi, di una impostazione fortemente orientata sulle nozioni e sulle conoscenze “fuori contesto”che gli esperti più avveduti criticavano già molti anni fa e che oggi pare ritornare inaspettatamente di moda.  Immagino che molti fra i partecipanti italiani alla rilevazione si siano sentiti  piuttosto smarriti nel misurarsi con quel tipo di quesiti.

I dati sull’Italia in effetti ci classificano rispettivamente con il sesto - nella literacy - e il quarto peggior risultato sia numeracy sia in APS. Se però si va oltre il dato generale, emergono altre importati peculiarità del nostro Paese.

Primo: come fa garbatamente notare lo Short report, è in verità sorprendente la sorpresa di molti alla lettura dei risultati. L’Italia è uno dei Paesi con il livello di istruzione formale più basso fra quelli cosiddetti “avanzati”: “ben il 38% delle persone fra i 25 e i 65 anni non ha neppure il diploma” e “la quota dei laureati - il 20% - è decisamente inferiore alla percentuale riscontrabile nella media OCSE e in molti Paesi partecipanti al PIAAC”. Certo, non c’è corrispondenza perfetta fra titolo di studio e competenze ma sarebbe bizzarro (e preoccupante) che non vi fosse correlazione o addirittura si notasse una correlazione inversa! Inoltre, nel nostro Paese la percentuale degli studenti delle facoltà STEM è più bassa della media OCSE e ancor più bassa è la quota delle donne che la frequentano. Ciò si riscontra in altre due dati: i domini numeracy APS sono quelli in cui registriamo i risultati peggiori, sia in generale sia nel confronto fra i soli laureati; il nostro gap di genere per le competenze logico-matematiche è ancora rilevante a danno delle donne (nella media OCSE è nullo), mentre non si registra  nella literacy (nell’OCSE è ormai a svantaggio degli uomini).

Secondo:  un’altra anomalia Italiana sono le percentuali di mismacht, ovvero di non corrispondenza  fra titolo di studio, competenze e lavoro svolto. [3] Il 18% degli italiani dichiara di aver un titolo superiore a quello richiesto dal proprio lavoro (il 15% competenze superiori). Il dato è inferiore alla media OCSE ma - come anche qui fa notare lo Short report  - “è piuttosto sorprendente che nonostante il quadro descritto [pochi laureati in rapporto alle altre economie] vi sia comunque una parte non trascurabile di lavoratori over-qualified”. Va aggiunto che i livelli salariali dei lavoratori italiani mediamente sono inferiori alla media OCSE ma la differenza in negativo è decisamente maggiore proprio nelle mansioni a più alto contenuto di competenza.

Terzo: se si ragiona per coorti d’età, quelli che vanno meglio sono i giovani fra i 16 e i 24 anni, ossia quelli che frequentano ancora le scuole secondarie o vanno all’Università. Meglio anche di quelli fra i 25 e i 34, che invece primeggiano in tutti gli altri Paesi. Aumentando ancora le età, le competenze declinano dappertutto progressivamente, come è compensabile, con il logoramento del capitale umano. Quindi, in Italia il termine degli studi accademici e soprattutto l’ingresso nel mondo del lavoro non rappresenta un ulteriore arricchimento delle competenze ma segna invece l’inizio della perdita del proprio patrimonio. Da notare comunque - ed almeno questo è un dato positivo - che se a fare le prove fossero stati solo i più giovani, da poco usciti dal sistema scolastico, l’esito sarebbe stato sempre inferiore alla media OCSE dei coetanei ma con divari quasi dimezzati rispetto al dato complessivo.

Quarto ma primo per importanza: a proposito di disuguaglianze, l’Italia vanta un dislivello territoriale a dir poco eclatante, di cui per altro pochissimi hanno parlato commentando l’indagine. In sintesi, se si scompongo i dati per macro-aree geografiche si ottiene questo quadro: il Nord-Est è addirittura sopra la media OCSE in literacy e numeracy, di poco sotto in APS; il Nord-Ovest di poco sotto nei tre domini; il Sud e le Isole ultime assolute in APS, penultime prima del Cile negli altri due domini; il Centro in una posizione intermedia, di fatto allineata alla media nazionale. E’ un divario territoriale enorme che ribadisce e peggiora il dato che si riscontra sistematicamente nelle rilevazioni INVALSI sulle competenze degli studenti e che si riverbera praticamente su quasi tutti i dati che riguardano l’Italia. Un divario che si somma agli altri fattori di disuguaglianza. Il Rapporto attesta che “le competenze degli individui sono ancora fortemente correlate al background familiare di provenienza: le persone con bassi livelli di competenze provengono prevalentemente da famiglie svantaggiate culturalmente, in cui i genitori hanno ridotti livelli di istruzione”. Un fattore che condividiamo più o meno con tutti gli altri Paesi, solo che le italiane/i partecipanti con famiglie svantaggiate erano il 65%, contro il 25% della media OCSE.

A questo punto - e tralasciando diversi altri aspetti importanti dell’indagine - mi pare che ciò che emerge dal PIAAC non sia la fotografia del nostro sistema scolastico ma dell’intero Paese: un sistema socioeconomico segnato da forti disuguaglianze territoriali e di condizione personale, che tendono a perpetuarsi in un circolo vizioso fra minori opportunità di formazione e minore possibilità di crescita individuale e collettiva; un sistema produttivo con punte anche di grande dinamicità - concentrate comunque in determinate aree - ma che, nel complesso, non scommette sulla valorizzazione del capitale umano e scoraggia di fatto il raggiungimento dei più alti livelli di istruzione (anche per la mancanza di politiche pubbliche di segno opposto); un sistema scolastico che cerca di superare una cultura dell’educazione già vecchia nel secolo scorso ma che, gravato da un contesto di disuguaglianze e di povertà educative strutturali, continua a riprodurle anziché contribuire a ridurle. 

Sarebbe necessario - come conclude lo stesso Short report - “un ragionamento profondo e unitario” che riguardi certamente la scuola ma, insieme, le politiche pubbliche di orientamento e incentivo agli studi superiori, la promozione della formazione lungo l’arco della vita, le misure per la coesione sociale e territoriale. Per questo è necessario anche un confronto con le migliori esperienze internazionali, sapendo comunque che non ci sono formule valide per tutti. In cima alla classifiche PIAAC troviamo due Paesi - la Finlandia appunto e il Giappone - che hanno sistemi formativi molto diversi e persino opposti su aspetti rilevanti. Ciò che li accomuna è semmai proprio la riconosciuta importanza della scuola, il prestigio sociale dei suoi insegnanti, la convinzione diffusa che più istruzione significhi una vita migliore per tutti. Forse è proprio questo che a noi manca.

 

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[1] Al Rapporto generale cui si accompagna, per l’Italia, una Sintesi Paese, prodotta dalla stessa OCSE e una rielaborazione più ampia curata dall’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche - Le competenze cognitive degli adulti in Italia - Prime evidenze dell’indagine OCSE-PIAAC. Nel testo sono indicati rispettivamente come Rapporto, Sintesi e Short report.

[2] Oltretutto il Rapporto, più che mettere in classifica i Paesi membri, ha lo scopo di dare un quadro generale attraverso un confronto con i risultati della stessa indagine svolta 10 anni fa. Un quadro commentato con preoccupazione, dal momento che si evidenzia un generale declino in tutti e tre i domini nell’arco della decade.

[3] L’intero secondo capitolo del Rapporto è dedicato ad una discussione su quanto queste competenze di base siano davvero necessarie per la società e l’economia di domani, in particolare in rapporto alla rivoluzione dell’Intelligenza artificiale e dei big data. Il tono è tutt’altro che dogmatico e la premessa è che “i primi segnali dell’impatto della IA sulla richiesta di competenze non delinea ancora un quadro chiaro”, anche perché esso dipenderà dalle scelte degli attori coinvolti, privati e pubblici. Sarà utile ritornare su queste considerazione riprendendo il discorso sulla AIED.

[4]  questi dati sono ricavati dall’elaborazione da un questionario di background che ogni partecipante all’indagine compila insieme ai test e da cui si ricavano informazioni sulle condizioni sociali e lavorative di ciascuno di essi.

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